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Cosa si può fare per gli Hikikomori?

11/4/2017

 
Di Hikikomori abbiamo già parlato qui, della grave situazione di ritiro sociale in cui si trovano milioni di adolescenti in Giappone, ma verosimilmente alcune migliaia anche in Italia. Se ne parla spesso come se fosse una terribile epidemia contagiosa.
Ma l’Hikikomori non è una malattia, anche se può produrre grave disagio negli adolescenti e nelle loro famiglie.
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Per poter rispondere Alla domanda “cosa è possibile fare per migliorare queste situazioni?”, mancano invece ancora parecchi pezzi. Un po’ perché la sindrome Hikikomori trova la sua origine in un paese geograficamente e culturalmente lontano, come il Giappone (non c’è ancora un corrispettivo europeo di questa problematica a cui diamo il nome di Ritiro Sociale Acuto). Un po’ perchè i primi casi sono arrivati inaspettatamente anche da noi, e sono stati confusi con tante altre cose. Uno dei punti di maggior confusione riguarda, ad esempio, quale ruolo svolga in questo estremo comportamento di chiusura, la dipendenza da Internet (per cui spesso ci viene chiesto aiuto): l’uso spesso assiduo della rete è da ritenersi all’origine del problema o piuttosto una “sorta di terapia maldestra” per fronteggiarlo?
Una cosa è certa agli occhi di noi operatori: il paziente Hikikomori non sente di aver bisogno e non si aspetta aiuto da nessuno. Egli oppone un rifiuto ad ogni tentativo di contatto, rendendo improponibile qualsiasi terapia che non sia adattabile alle nuove esigenze. Chi arriva ai servizi e chiede aiuto non sono i giovani auto segregati, ma i loro genitori che, spesso dopo mesi o anni di immobilità in queste situazioni, riportano a loro volta serie difficoltà. I genitori si sentono impotenti di fronte al vuoto relazionale in cui approdano con i figli che, quasi sempre, nel frattempo hanno già rinunciato anche alla scuola e agli amici. Di frequente arrivano dopo aver già compiuto svariati tentativi per cambiare le cose (cambiare scuola, staccare internet), ma il più delle volte con scarso successo. Spesso chiedono aiuto seppur timorosi che la situazione possa modificarsi in peggio: da un lato preferiscono infatti  sapere il figlio a casa  davanti al computer, piuttosto che immaginarlo “fuori a drogarsi con gli amici”.
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Fornire un supporto professionale alle famiglie diventa dunque essenziale, sia perchè i genitori svolgono un importante ruolo di interfaccia con gli operatori, sia perché spesso si trovano ad affrontare da soli grandi momenti di difficoltà (come i frequenti accessi di aggressività dei ragazzi). Secondo alcuni studi la quantità di stress e di ansia nei membri di queste famiglie risulta essere molto maggiore che nella popolazione generale. L’equilibrio della famiglia, (vittima della situazione ma talvolta con aspetti disfunzionali pregressi), è strettamente legato al disagio dei figli. Il problema, infatti, si estende in breve tempo dall’isolamento dei ragazzi Hikikomori, alla perdita delle relazioni interne alla famiglia. Un trattamento “tradizionale”, basato sul presupposto che il paziente si decida ad uscire di casa per raggiungere lo studio del terapeuta, sarebbe dunque destinato a fallimento e frustrazione. La nostra esperienza ci suggerisce, al contrario, la necessità di coinvolgere i genitori e il contesto (sociale e virtuale) dei ragazzi per poter essere loro d’aiuto.

Alla luce di queste esigenze, il team Indipendenze ha ideato diversi percorsi per affrontare il problema nel modo più comprensivo possibile. Oltre ad un sostegno di coppia/ individuale per genitori, abbiamo avviato supporti domiciliari, con operatori appositamente formati, per cercare di costruire con il ragazzo una relazione che non sia solo “virtuale”.
Da poco è stato inoltre attivato un gruppo di supporto rivolto ai genitori di ragazzi che presentano questa problematicità (qui la locandina). E’ possibile partecipare al gruppo, previo colloquio conoscitivo, contattandoci al numero 345/3757946.

Supporto genitori Hikikomori
Il dott. Giuseppe Cuoghi parlerà di Hikikomori nel convegno che si terrà in sala Marani a Verona il giorno 20 aprile dal titolo “Le ludopatie (gioco d'azzardo e dipendenza dai giochi online): un fenomeno che non possiamo più trascurare” (qui la locandina)".
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Immagine di proprietà del Dr. Marco Crepaldi - HikikomoriItalia.it

  • C. Ricci et al. Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, ed. Francoangeli, 2008
  • Watts J, Public health experts concerned about “hikikomori”: Lancet, 359, 1131, 2002.
  • Kondo, N. Possible approach to prevention and early intervention in adolescent social withdrawal: Japanese Society of Social Psychiatry 10: 193-199, 2001.
  • Kobayashi S, Yoshida K, Noguchi H, Tsuchiya T, and Ito J. Research for Parents of Children with “Social Withdrawal: Seishin Igaku, 45(7), 749-756, 2003.
  • Narabayashi, R. Helping Families with “Hikikomori”: Seishin Igaku 45(3), 221-227
  • Funakoshi A. Study of Parental Difficulties in Families With Hikikomori Syndrome Children (Social Withdrawal), 2011

Come posso aiutare un famigliare che ha una dipendenza?

10/12/2015

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Spesso è fondamentale l’intervento di famigliari ed amici affinché la persona che ha una dipendenza problematica arrivi a farsi aiutare da un professionista.

Quello che i famigliari possono cercare di fare è agevolare il transito della persona dipendente dallo stato che gli addetti ai lavori chiamano “fase di precontemplazione” (in cui la persona non è minimamente preoccupata dei problemi derivanti da tale condizione, anzi, non sospetta neppure di avere un problema che richieda un cambiamento e quindi non è intenzionata a fare sforzi per cambiare) allo stato in cui arriva a contemplare la possibilità che sia necessario un cambiamento e che possa avere bisogno di aiuto (“fase di contemplazione”). 
Per un genitore è molto difficile riuscire a mantenere la lucidità quando, ad esempio, scopre che il proprio figlio si sta facendo del male usando droghe o sta sperperando i beni della famiglia giocando d’azzardo. Spesso si corre il rischio di utilizzare modalità di comunicazione che, invece di convincere il figlio a fare dei passi verso la ricerca di aiuto, lo portano ad arroccarsi ancora di più su posizioni di non-cambiamento.
Vi sono infatti alcune trappole, in cui è facile cadere, che possono ostacolare la comunicazione. 
​Il modo più veloce che i famigliari hanno a disposizione per portare la persona con dipendenza verso il cambiamento, è lavorare su se stessi, provando a sostituire alcuni atteggiamenti verso il proprio caro e osservando cosa succede.
Di seguito segnaliamo alcuni consigli su come relazionarsi con la persona che ha un problema di dipendenza, quando non ammette la propria situazione problematica, anzi minimizza i problemi o incolpa gli altri.​

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“Se cambi il tuo atteggiamento verso le cose, finisci per cambiare le cose.”
​
Emil Michel Cioran
​

Evitare discussioni ​

pesso si è convinti di poter ottenere un cambiamento della persona che ha una dipendenza solo se la si critica con severità. Facilmente si cade nella trappola di discutere con argomenti logici il comportamento della persona dipendente (ad esempio, mostrando le conseguenze che esso determina su di lei e sulla famiglia), come se si volesse farle aprire gli occhi, mettendola così sotto pressione per modificare la situazione nella direzione che si ritiene più giusta. In realtà, questo atteggiamento fa sì che l’interlocutore si trovi schiacciato sulla posizione del non-cambiamento e quindi costretto a difenderla pronunciando una serie di argomenti in favore del mantenimento della condizione problematica. Ogni volta che la persona con dipendenza si trova ad esprimere a parole la necessità di non cambiare se ne convince un po’ di più… Per questo motivo bisognerebbe cercare di evitare le discussioni.
Del resto, la reazione di un fumatore quando gli si fa notare la scritta “Il fumo uccide” sul pacchetto di sigarette spesso è “Ma di qualcosa bisogna pur morire!” oppure espressioni del tipo “Mio zio ha avuto un tumore da giovane ed era un salutista, è solo questione di sfortuna..”. 
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"Le persone si lasciano convincere più facilmente
dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto
piuttosto che da quelle scaturite dalla mente di altri.”
​
​
Blaise Pascal


Manifestare empatia 

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Il clima relazionale auspicabile è quello dell’empatia. Empatia non significa consenso o approvazione sul comportamento della persona con dipendenza, ma vuol dire cercare di comprendere accuratamente le sue sensazioni, emozioni e ragioni, anche se queste non sono condivise.
Costruire una relazione empatica con persone dal comportamento problematico può essere difficile o impossibile se non si riesce ad interpretare tale comportamento come il compromesso migliore che la persona ha potuto produrre nelle condizioni in cui si trova.  Infatti, spesso la dipendenza inizia come una modalità per rifugiarsi, per non affrontare emozioni e sentimenti che creano un disagio (ad esempio, insoddisfazione, tristezza, ansia, angoscia, dolore) poichè la persona non riesce a gestirlo in altro modo.
Il concetto di non-giudizio è parte integrante dello stile empatico che contiene anche un significato di accoglienza. Accettare quindi la persona come è e nella fase in cui si trova. L’accettazione non-giudicante non è rassegnazione, ma un atteggiamento che facilita il cambiamento.
L’atteggiamento accogliente, amorevole e non-giudicante verso l’altro è più spontaneo per alcune persone. Chi è più distante da questo modo di “stare nella relazione” può comunque cercare di svilupparlo o migliorarlo anche attraverso la pratica della mindfulness. ​​


La fase di contemplazione inizia con l’irruzione della consapevolezza dei problemi causati dal comportamento di dipendenza. Emerge quindi una forte ambivalenza: da un lato vi è la consapevolezza che il problema è serio e che vi è la necessità di un cambiamento, ma dall’altro non si è ancora pronti, si è intimoriti o terrorizzati dalla prospettiva di smettere tale comportamento. In questa fase, la persona continua ad oscillare tra i due poli, quello del mantenimento dello status quo e quello del cambiamento che appare necessario, forse anche appetibile, ma certo ancora irraggiungibile, almeno per il momento (“So bene che devo smettere, ma sento che non ce la posso fare”).
Nel momento in cui inizia ad emergere nella persona con dipendenza l’idea della possibilità di  cambiare, i famigliari possono aiutarlo ad aumentare la sua disponibilità a lasciarsi aiutare da un professionista sostenendo la sua autoefficacia ed evocando affermazioni automotivanti. ​

Sostenere l’autoefficacia ​

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L’autoefficacia ha a che vedere con l’autostima, ma è un concetto più specifico. Significa fiducia nella propria capacità di attuare un comportamento prestabilito e indica in qualche modo l’energia disponibile per affrontare il cambiamento. Si  tratta  di  un  insieme  di  valutazioni  che  l’individuo compie rispetto alla propria possibilità di raggiungere un obiettivo concreto in un tempo determinato. La fonte dell’autoefficacia è essenzialmente la consapevolezza di aver dimostrato in precedenza di essere stati capaci di conseguire un obiettivo.
Strategie per stimolare l’autoefficacia sono quelle di enfatizzare la responsabilità personale dell’individuo nel processo di cambiamento, e far ricordare precedenti successi della persona o anche ciò che altri in condizioni analoghe sono stati capaci di fare. Un adeguato senso di autoefficacia è espresso da un ottimismo realista (“Posso affrontare tutte queste difficoltà”; “Ce la posso fare con il vostro aiuto”).  

Evocare affermazioni automotivanti

L’ideale sarebbe riuscire ad evocare affermazioni orientate al cambiamento da parte della stessa persona con dipendenza. Le affermazioni automotivanti sono quelle attraverso le quali l’individuo riconosce il problema, evidenzia una preoccupazione rispetto al problema, esprime la volontà di cambiare, e manifesta ottimismo rispetto al cambiamento (es. “Effettivamente è importante che smetta di fumare se non voglio avere altri problemi al cuore”). Le persone, infatti, si impegnano su ciò che loro stesse affermano come importante (Bem, 1972). Strategie per evocare questo tipo di affermazioni sono, ad esempio, portare la persona a guardare indietro e ricordare la situazione quando il problema non c’era, oppure a guardare avanti facendo ipotesi su come potrebbe essere il futuro se il problema venisse risolto.
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​Quando la persona con dipendenza prende coscienza dell’esistenza di un problema che necessita di un cambiamento, potrebbe richiedere consigli a famigliari ed amici. E’ solo in quel momento che i consigli diventano opportuni. Se in questa fase si riesce a far sì che la persona arrivi a prendere contatto con un professionista, sarà poi insieme allo psicologo che supererà l’ambivalenza in cui si sente imprigionata.
L’equipe di Indipendenze propone interventi specifici per i famigliari perché sappiano per primi essere di aiuto, motivando chi ha il problema della dipendenza, a trovare il percorso di trattamento più adeguato.
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Fiducia e dipendenza: ritrovare la persona oltre gli errori e le promesse

18/9/2015

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“Ero appena uscita dal lavoro, e come sempre stavo già pensando alle mille altre cose da fare, alle scadenze prestabilite e ai calcoli fatti la notte precedente. Ancora una volta mi ero accorta che per quel mese non saremmo riusciti a mettere via neppure un euro e le mie giornate erano diventate ormai parte di un processo meccanico di salvataggio. L’ansia per le scadenze e i debiti era diventata ormai parte del mio carattere e se ci penso adesso, credo fossero passati mesi dall’ultima volta in cui mi ero permessa di esternarli con qualcuno. Ogni possibile domanda da parte degli altri era diventata come un pugno nello stomaco, come uno specchio che all’improvviso mi metteva di nuovo davanti a tutto quello che era accaduto e all’inutilità dei miei sforzi per uscirne. Tutte le bugie, le promesse mancate, i debiti, le minacce…. Stare da sola e attenermi scrupolosamente al piano che avevo studiato per risalire era diventata l’unica soluzione. Non mi ascoltavo più, non sentivo nulla, facevo – facevo – facevo, alla sera mi spegnevo e il giorno dopo ricominciavo da capo. Un robot solitario programmato per salvare la famiglia da un tracollo provocato da qualcun’altro.
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Quel giorno però un imprevisto banale mi obbligò a mettere in discussione il mio piano e per un attimo l’unica sensazione che provai fu quella di non avere una via d’uscita. L’insegnante di danza di mia figlia mi chiamò per dirmi che non si era sentita bene e che credeva fosse il caso che qualcuno la venisse a prendere. Non sapevo come fare, da lì a poco le poste sarebbero chiuse e anche il supermercato. Dovevo assolutamente pagare entro oggi perché eravamo troppo in ritardo, non ci sarebbe stato nulla per la cena e il giorno dopo era già tutto programmato! Non sapevo come fare.

Cominciai a provare una rabbia incredibile, continuavo a ripetermi “Non è giusto! Non è possibile! Perché devo fare tutto io! Perché sono così sola!”. A quel punto alzai lo sguardo e mi accorsi che accanto a dove avevo parcheggiato c’era un cartellone pubblicitario di una azienda assicurativa e nell’immagine c’era una famiglia felice composta da tre persone felici, dove il papà in centro all’immagine teneva con un braccio la figlia e con l’altro stringeva la moglie accanto a lui. Per un secondo rimasi ferma con il telefono in mano, mi resi conto di invidiare quella famiglia e mi chiesi perché non potevo avere anche io qualcuno accanto a cui chiedere una mano! Fu in quel momento che provai quella sensazione… Fu come se qualcuno mi stesse scrollando, come se avessi riaperto gli occhi dal mio mondo programmato e solitario e avessi visto quello che in realtà avevo, ma che non vedevo più da molto tempo.  Da sotto una voce mi riportò nuovamente nel presente: “Signora, c’è ancora? Pronto? Riesce a venire a prendere sua figlia?”. “Mi scusi, eccomi! Nessun problema… ora chiamo mio marito e dico a lui di venire! La ringrazio”. 
La sera, di ritorno dalle mie commissioni, apro la porta di casa e li vedo. Sono lì, lei è sul divano con la coperta sulla pancia e il suo orsetto. Lui le sta preparando il latte caldo con il miele e una punta di cannella, il suo preferito. Resto sulla porta un secondo, lo osservo, lo ricordo e lo riconosco. Senza neanche accorgermene, sorrido. 
Ora voi mi avete chiesto come ho fatto a perdonarlo, se penso che non giocherà mai più, se davvero mi fido di lui! Io a queste domande non so rispondere, forse in fondo non voglio neppure farlo perché scoprire di aver sbagliato ancora una volta mi farebbe troppo male! Quello che so, e che ho imparato a fare, è non chiedermi più nulla sul passato e osservare quello che ho ora. Lui c’è ancora, mia figlia, anzi nostra figlia, c’è ed è felice. Nonostante tutto noi ci siamo e io ho ricominciato a vederlo! Nel suo sguardo io quella sera ho visto un padre, un uomo, un marito, non più solo un giocatore. Lui sa benissimo che nessuno potrà cancellare quello che è stato e che nessuno può dimenticare la fatica e la sofferenza che abbiamo passato! Ma lui non è solo questo, in lui c’è qualcosa di più, un uomo che deve recuperare il suo ruolo, il suo spazio e tornare ad essere importante. In lui ci sono altre possibilità, e in quegli occhi, quella sera, ho visto la riconoscenza per avergli dato la possibilità di iniziare a dimostrarcelo”.
Questo racconto è il riassunto di alcune tra le testimonianze di mogli e mariti che ho avuto la fortuna di poter ascoltare durante le mie esperienze lavorative nell’ambito delle dipendenze. La forza e la voglia di cambiamento che alcune di queste persone riescono rintracciare nelle piccole cose diventa una forma di terapia quotidiana che dona speranza e forza per andare avanti.
Spesso chi intraprende un percorso per uscire da una dipendenza arriva dal terapeuta completamente solo e in balia dei sensi di colpa, consapevole di aver perso qualcosa di molto più importante dei soldi, del tempo e della salute: la fiducia di chi gli sta accanto. Si sente inutile, incapace e senza speranze. Spesso mostra rabbia nei confronti degli altri perché ritiene che non vedano i suoi sforzi per uscire dalla dipendenza e che non gli riconoscano nulla. Col tempo però questa rabbia si trasforma in tristezza, delusione e rassegnazione per un immagine di se che vede impressa negli sguardi e nelle espressioni di chi gli sta vicino e che crede di non poter mai più cambiare. Si sente invisibile e inconsistente e, quando non ricade nella dipendenza, prosegue la sua vita in una sorta di stato punitivo, intento a ripagare il danno fatto senza sentire più meritevole di ricevere qualcosa in cambio.
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In questo senso spesso la condizione emotiva del paziente da prima a dopo la dipendenza resta immutata e si ritrova a dover convivere con la stessa solitudine e inutilità che in passato l’aveva spinto ad iniziare a giocare o a fare uso di sostanze. Questo circolo vizioso tra senso di solitudine, inutilità, rabbia e colpa è una condizione tutt’altro che favorevole al fine di evitare ricadute e necessita di essere interrotto, sia nella mente del paziente che di chi gli sta vicino. Lavorare sulla faticosità del risentimento prolungato, sull’utilità della costruzione di nuove immagini di sé e sul riconoscimento delle proprie risorse attuali può essere un metodo utile per provare a recuperare un po’ di fiducia nelle possibilità future del paziente, disancorandosi da un immagine compromessa, povera e potenzialmente dannosa. 

Sulla base di tali riflessioni l’èquipe di Indipendenze offre supporto alle persone che hanno problemi di dipendenza e a chi convive con loro, affrontando il tema del recupero della fiducia come obiettivo e come percorso graduale di ricostruzione.      

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