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Chi sono gli Hikikomori?

4/10/2015

 
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L’etimologia del termine Hikikomori (da hiku "tirare" e komoru "ritirarsi") rimanda ad uno stato di isolamento, di confinamento e viene adottato in Giappone a partire dagli anni Ottanta per indicare quelle persone che scelgono di ritirarsi dalla vita sociale. In origine il fenomeno sembra riguardare adolescenti che rifiutano di lasciare la propria abitazione per più di sei mesi con l’obiettivo di opporsi ad una cultura tradizionale giapponese molto richiedente. E’ stato identificato come “disturbo” nel momento in cui questo stile di vita ha iniziato ad essere condiviso da più giovani, interessando l’1% della popolazione Giapponese (ossia circa un milione di persone). 

Questi ragazzi sono inoltre accomunati da ritmi sonno-veglia completamente invertiti cui segue spesso uno stato di letargia, umore depresso, talvolta comportamenti ossessivo-compulsivi e manie di persecuzione. Con lo sviluppo tecnologico, i giovani in questione si ritrovano a dedicare la maggior parte delle loro giornate ai videogiochi o alla navigazione in rete che finiscono per sostituire tutte le attività quotidiane. ​Ecco dunque che le relazioni vis à vis con i coetanei vengono rimpiazzate da incontri con amici virtuali che, a modo loro, tengono compagnia. Si tratterebbe dunque di una scelta “gruppale” piuttosto che “individuale”, se confrontata con l’Hikikomori delle origini che trascorreva le sue giornate leggendo libri o girovagando per la stanza in completa solitudine.  
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​I contatti in rete hanno invece il duplice vantaggio di non farci sentire soli, evitandoci al tempo stesso tutte le difficoltà dell’incontro diretto. Siamo dunque di fronte ad un “fenomeno” che, per quanto nuovo, nel corso degli anni ha già incontrato alcuni cambiamenti. 
​Questa considerazione esorta a non accontentarci di quello che già “sappiamo” poiché la storia di ogni ragazzo può dirci qualcosa in più rispetto al suo “Hikikomori”. E’ un invito a non fermarci all’etichetta, ma piuttosto ad ascoltare la nostra curiosità e il nostro interesse nei confronti dell’altro per raggiungere una conoscenza più profonda della persona. L’équipe di Indipendenze condivide il presupposto che sia fondamentale comprendere quale sofferenza si celi dietro il disagio manifestato dal ragazzo al fine di trovare per lui e con lui una nuova strada da percorrere. Come ci spieghiamo la scelta dell’isolamento quale soluzione eletta ad esprimere il proprio stato di impasse? Cosa vuole comunicare il ragazzo attraverso questa scelta?
In Italia le prime diagnosi di Hikikomori risalgono al 2007, oggi le stime parlano di 20/30 mila casi. I ragazzini interessati sembrano appunto accomunati da un’estrema dedizione per il computer che in alcuni casi si esprime in una difficoltà ad uscire dalla propria stanza anche solo per lavarsi o per mangiare. In situazioni simili, il rischio è che i genitori diventino inconsapevolmente complici, facendo trovare ad esempio i pasti all’entrata della camera, purché il figlio non si trascuri fino ad arrivare al digiuno. Il “nemico computer” tanto dannoso può diventare tuttavia anche una risorsa terapeutica se lo pensiamo come un’occasione per mettersi in contatto con questi ragazzi che chiudono il mondo fuori dalla propria stanza ma ci fanno vedere che una feritoia, per quanto piccola, rimane.
Per concludere vorrei lasciarvi con una domanda: siamo proprio sicuri si tratti dello stesso fenomeno Giapponese che oggi sta “dilagando” anche in Europa? Alcuni studi condotti parlano di un sentimento di vergogna che sembra accomunare questi giovani, vergogna dovuta ad una difficoltà nel rispondere alle aspettative sociali e dunque ad una distanza osservata tra la realtà idealizzata e quella osservata, tra quello che si è e quello che si vorrebbe diventare. Attribuire agli altri aspettative nei propri confronti e nutrire un bisogno di rispondervi con la sensazione di non riuscirvi è un tema caldo nel mondo giovanile e, per questi ragazzi, sembra diventare motivo di disagio. Credo però che tenere in mente la mia domanda, volutamente un po’ provocatoria, possa aiutare a spingersi oltre le generalizzazioni e gli elementi di comunanza osservati per esplorare quegli aspetti che, nel fare la differenza, ci avvicinano in modo unico alla sofferenza della persona. 

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